Non è crisi di idee, il problema sono le nuove leve. E bisogna tornare allo studio della lingua.
Rino Marcelli - vero nome Alberto Servo - è uno degli ultimi grandi interpreti di quella straordinaria tradizione del Teatro Popolare Napoletano che, ormai in tanti, considerano al tramonto. Nino Masiello, ad esempio, nell’intervista pubblicata ieri, considera Marcelli stesso e Cannavale gli unici eredi di quella meravigliosa scuola teatrale che, dopo Ruccello, sembra aver prodotto solo confusione.
La sua carriera è un crescendo di soddisfazioni e successi: dalle esperienze televisive -ricordiamo il ciclo “Una voce una donna”, a fianco di Marina Pagano- fino all’incontro con il grande Roberto De Simone, per il quale, in nove anni, è protagonista di 15 suoi lavori, tra i quali vanno certamente menzionati: “La gatta cenerentola”, “L’opera buffa”, “Il bazzeriota”, “Il malato per apprensione”.
A Marcelli, dunque, come già a Roberto De Simone e Nino Masiello, abbiamo chiesto di esprimere un suo pensiero in merito a quello che sembra essere un momento di crisi soprattutto nel ricambio generazionale del teatro napoletano di tradizione.
Maestro, già De Simone e Masiello, in precedenti interviste, hanno dichiarato che ci sono sempre più difficoltà eredi della tradizione del teatro popolare napoletano. Lei cosa ne pensa?
In linea di massima, sono d’accordo anch’io; credo, infatti, che sia rimasto ben poco. Certo, ci sono giovani che hanno delle doti, solo che non vogliono fare gavetta e, non appena riscuotono un po’ di successo, o hanno dei complimenti, pretendono di fare i protagonisti.
Insomma, anche in teatro si è smarrito il senso e il valore del sacrificio e, come in ogni settore, i giovani pretendono tutto e subito.
Difatti, e questo non è giusto perché bisogna prima sudare per arrivare a fare i protagonisti. I giovani dovrebbero riacquistare il valore dello studio e capire che bisogna partire da piccoli ruoli, per poi, poco alla volta, giungere alle parti da protagonista.
A questo graduale percorso potrebbero e dovrebbero, forse, contribuire anche le scuole di teatro. Secondo lei, a Napoli, quelle poche presenti sono sufficienti o bisognerebbe istituirne delle altre?
Beh, certo, le scuole sono sempre fondamentali e, forse, una vera e propria Accademia manca in una città che, per anni, è stata considerata - e forse lo è ancora - la patria del teatro. Comunque, sia il teatro Totò che il teatro Bellini hanno dei buoni laboratori, solo che, probabilmente, potrebbero funzionare meglio. Ma questa è solo una mia idea.
Altro problema fondamentale per il teatro napoletano è quello della “lingua napoletana”, di cui, oggi, molti denunciano la progressiva e ineluttabile scomparsa. Lei cosa pensa in proposito?
Anche in questo caso, ritengo che bisognerebbe tornare allo studio della lingua. Inoltre, si sente la mancanza di scrittori, drammaturghi, maestri in grado di rappresentare un modello di riferimento. Un aspetto e un problema che risultano ancora più evidenti - e la cui risoluzione risulta ancora più urgente - se si pensa che ci sono artisti napoletani che si ostinano a fare parti in “lingua” misconoscendone i fondamenti.
Farebbe qualche nome?
Nomi non ne faccio, però ricordo un’attrice di grido, impegnata in una commedia qualche tempo fa, che eseguiva prima i gesti e poi recitava la battuta. Un errore imperdonabile per attori che pretendono di calcare i grandi palcoscenici!
Insomma maestro, per chiudere, oggi chi pensa sia il depositario di quella cultura teatrale che tanto prestigio e tanti successi ha dato alla nostra città?
Non ho dubbi: Roberto de Simone è un grande, il più grande. Qualunque regia faccia mette una cura per i dettagli da fare invidia a chiunque.
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